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IL DOLCE DOMANI
(THE SWEET HEREAFTER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 maggio 1997
 
di Atom Egoyan, con Ian Holm, Peter Donaldson, Sarah Polley (Canada, 1997)
 
La cronaca. Una piccola comunità rurale è sconvolta da una tragedia: l'autobus della scuola esce di strada trascinando gran parte dei bambini nella sua corsa impazzita verso il lago ghiacciato. Nel villaggio, povero, isolato sbarcano gli avvocati: cercano di convincere gli abitanti ad intentare le cause di risarcimento nei confronti dello Stato. Ed ad aggredirsi legalmente l'un l'altro.

L'irruzione dello straordinario, nel quotidiano dei rapporti pacifici e sereni. È quello che attira Russell Banks (1940, premio Pulitzer nell'85) a trascrivere quella cronaca in un romanzo: "Ma come descrivere un dramma di tale intensità? Ho letto le deposizioni di molti genitori: si sforzavano di esprimersi in un linguaggio posato, neutro, il più chiaro possibile. Come sperassero di scoprire una coerenza in quel dramma irrazionale" - dice Banks. Ed aggiunge Atom Egoyan: "La loro esigenza di precisione è il loro modo di sopravvivere, un aiuto a trasformare il negativo in positivo, a dare un senso, semmai esista, alla loro tragedia".

Terzo capitolo della genesi di THE SWEET HEREAFTER, del romanzo di Banks l'autore di EXOTICA decide di fare un film: adattando per la prima volta al suo mondo cosi particolare a cavallo fra realtà ed interiorità, un testo appartenente ad un d'altro. Con l'intervento di Egoyan, la vicenda assume una terza dimensione: ancora più segreta ed al tempo stesso universale, atrocemente reale ma nel contempo metaforica, semplice e complessa, lucida e poetica. Consolatoria, illuminata, proiettata prodigiosamente innanzi.

È la possibilità del cinema di trasfigurare le immagini, di traslare la realtà, il suo potere di coinvolgere l'interpretazione ed i fantasmi dello spettatore. Come riconosce la scrittore stesso: "Il dolore, le relazioni fra le diverse generazioni, le implicazioni morali, l'insignificante che si fa essenziale. Un film può essere ben più sottile di un romanzo: io ho avuto bisogno, per descrivere quella catarsi, quella trasformazione, di smuovere tutto un villaggio. Ad Egoyan è bastata una scena. Il cinema deve utilizzare quella piccola fiamma che anima un libro e, se necessario, buttare tutto il resto".

Questa splendida definizione di un dibattito annoso quanto vano sui rapporti fra cinema e letteratura trova nel film una luminosa, esemplare dimostrazione. Perché di quell'urgenza di capire, di spiegare l'assurdo di un personaggio, di pochi abitanti sconvolti dalla scomparsa della logica, del futuro, Egoyan fa un discorso di tutta una comunità: una riflessione morale che ci coinvolge tutti.

Lo fa dilatando, com'è suo costume, il tempo. Introducendo il personaggio di un avvocato (Ian Holm, al solito interiorizzato, seducente, inquietante) che per fuggire ai propri demoni (la relazione problematica e colpevolizzata con la figlia drogata) riversa sugli abitanti del villaggio la propria amarezza, la sete di vendetta, il conforto che trova nelle loro perdite di essere padre di una figlia viva, ma egualmente persa. Il destino dell'avvocato, quello dell'autobus che corre nell'immensità glaciale delle montagne canadesi, le reazioni della comunità superstite sono allora rappresentate in un futuro, un presente ed un passato. Il folgorante cinemascope del regista si occupa del resto: fonde i primi piani dei personaggi accorati all'eternità rarefatta di un paesaggio sublimato, dalle tinte sature, dalla definizione accentuata fino allo spasimo. Cosi che la cronaca assume un aspetto fuori dal tempo, mitico ed epico. Le riprese dall'elicottero si alternano con gli interni delle abitazioni, l'eternità di una storia che si fa riflessione con l'intimità quotidiana, domestica dei protagonisti. Le armi di una regia meravigliosamente liberata, i movimenti della macchina da presa, il ritmo del montaggio, il taglio delle inquadrature avvolgono, coinvolgono la terra ed il cielo, la materia e lo spirito, la realtà ed il sogno, il prima ed il dopo, l'analisi e, infine, la morale.

Perché quell'incidente? Perché quel giorno, perché la perdita di un figlio, la scomparsa di un bambino? Questa domanda Egoyan la formula introducendo nel film, con un'altra bellissima intuizione espressiva, la favola del Pifferaio Magico. Che, per vendicarsi degli abitanti di Hamelin, attira a sé tutti i bambini del villaggio. Meno, uno, poiché storpio, e quindi in ritardo. "Se il Pifferaio è cosi onnipotente - fa chiedere il regista ad uno dei suoi piccoli protagonisti - perché non obbliga i genitori a pagare quanto gli dovevano, invece di punirli portandosi appresso i loro bambini?"

Ed è l'interrogazione, semplice ed immensa, che si situa al centro de IL DOLCE DOMANI: quella che il regista trasforma, grazie al proprio sguardo, in riflessione filosofica. Perché il Pifferaio del film è Nicole: la giovane protagonista dallo sguardo trasparente (quella Sarah Polley che assicura, con la sua presenza intemporale, la continuità di molti temi abbozzati in EXOTICA), una delle poche sopravvissute all'incidente, musicista, incantatrice. La sola capace di affrontare l'avvocato, di assumere la verità, anche a costo di servirsi di una menzogna: la verità, intesa come conservazione dei veri valori. Non quelli della cupidigia, della vendetta; non quelli che portano alla divisione. Ma che guidano alla riconciliazione, allo scambio, ad una continuità pur permeata di dubbi, sofferenze e ripensamenti.


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